(di seguito… Probabilmente il più grande insegnamento che mi ha lasciato il rugby)
Il rugby mi ha dato tanto, come immagino abbia fatto con la maggior parte di chi lo abbia praticato.
Io ho sempre cercato di contraccambiare, ed ho cercato di dare indietro tanto: tutti i pomeriggi dai 15 ai 21 anni, tutte le domeniche mattine di campionato ed i relativi sabati sera (beh, ad essere completamente onesto non tutti tutti i sabati sera di campionato), tre legamenti di un ginocchio, una clavicola, incalcolabili punti di sutura, il naso…
La lista sarebbe veramente lunga, credimi quando dico tanto.
Talmente tanto che quando a 21 anni ho smesso di giocare mi sono chiesto se tutti gli allenamenti, tutte le trasferte, tutti gli infortuni valessero ancora qualcosa o fossero stati solamente tempo perso.
Come sempre, come ha detto qualcuno più famoso di me: “non è possibile unire i puntini guardando avanti, puoi solo unirli guardando indietro’’.
Oggi ho questa visuale e posso dire con certezza di dover tantissimo di quello che sono al rugby.
Di seguito, probabilmente, la lezione più preziosa ricevuta.
Avevo 15 anni…
Ancora il Romagna RFC non esisteva, giocavo nelle giovanili del Cesena Rugby.
Ogni allenamento facevo un’ora di pulmino all’andata ed una al ritorno.
La società stava facendo questo folle investimento per permettere a me e ad alcuni miei amici di poter diventare giocatori di rugby, l’anno prima avevamo portato la squadra della nostra scuola media, quella di un comune sperduto sui monti di un paese dove il rugby era sconosciuto fino ad allora, alle finali nazionali studentesche.
Quando cresci in un comune di 5000 abitanti conosci tutti, i tuoi compagni di scuola sono i tuoi amici di sempre.
Non serve tutto il percorso in cui si forma una squadra, in una rissa, prenderesti un pugno in faccia al posto di qualsiasi compagno già dalla prima partita.
Non sapevamo molto del gioco, avevamo imparato giusto le poche regole che ci servivano per poter vincere.
L’ignoranza pensava al resto.
Entrare a far parte di un club con una tradizione, iniziare a far parte di una squadra con atleti che già si allenavano da anni, dovrebbe essere il massimo per un adolescente che sogna di diventare un campione.
Invece no.
Le dinamiche della squadra di club erano diverse per noi, non avevamo gli amici di sempre a fianco.
Non facevamo ancora parte di quel gruppo, in allenamento questo si traduceva in poco affiatamento…
In partita, la domenica, soprattutto quando le cose si mettevano male, accadeva il peggio e mostravamo tutte le fragilità di una non-squadra.
Ti avviso che non finirà con la solita morale: L’importante è partecipare.
A me perdere ha sempre fatto schifo, ho sempre tratto i maggiori insegnamenti nelle sconfitte, come in questo caso, ma mi ha comunque sempre fatto schifo.
Io ed il “gruppo di montanari” non eravamo abituati a perdere.
Non eravamo certo invincibili, ma abituati a giocare con ‘fratelli’ sputavamo veramente il sangue prima di arrenderci.
Quella domenica era una di quelle volte in cui anche se non sei abituato ti istruiscono alla svelta e se sei disposto a sputare sangue: Ti stanchi prima tu di chi te lo farà sputare.
Erano il doppio e menavano il triplo. Chi ha giocato sa.
Come potrai immaginare, stiamo perdendo, ma non era la cosa che più mi faceva incazzare.
C’era della gente (in squadra con me) che aveva paura, che evitava contatti.
Per usare un linguaggio tecnico ‘’tirava il culo indietro”.
Il risultato ovviamente era una umiliazione sul tabellone e razione doppia (di svettole) per gli altri compagni.
Io che ho già spiegato la mia relazione col ‘partecipare’, di britannico avevo rimasto solo il gioco a cui stavo partecipando, di sicuro non l’ aplomb.
Insultavo tutti quelli che catalogavo come codardi peggiorando la loro situazione.
Sotto nel punteggio e sotto fisicamente.
Finisce il primo tempo.
Bene, durante l’intervallo la tanto preambolata lezione.
Con una calma disarmante, Toto, l’allenatore si rivolge al gruppo così: ‘’Signori, se calate le braghe quando vi stanno menando è la volta in cui ne prendete ancora di più.
Questo è il momento in cui bisogna compattarsi e reagire come squadra dopo (finita la partita) ci sarà tempo per fare i conti con chi non è stato all’altezza o ha sbagliato. Non adesso.’’
(nella foto: Massimo ’Toto’ Magnani)
Solamente con questo, ad oggi, ci faccio la patta con tutti i Km, tutti gli interventi chirurgici e tutte le botte che questo sport mi ha procurato, comprese quelle di questa domenica.
Nella vita e nel lavoro mi è servito un sacco filtrare le cose con questa lente, evitare polemiche durante momenti di crisi ed aiutare al massimo delle possibilità.
Alla luce degli eventi di attualità ai quali assisto penso che l’Italia ed il mondo sarebbero un posto migliore se la gente avesse giocato di più a rugby.
Prima si attraversa la tempesta, poi si cercano i colpevoli e si fanno i conti.
La prima ora di internet è stata un momento di esplorazione in un mondo completamente sconosciuto. Anche oggetti come i banner pubblicitari erano irresistibili per i clic.
Oggi, oltre 20 anni dopo, i banner pubblicitari sono quasi universalmente considerati la parte più fastidiosa dell’esperienza su Internet. A partire dall’anno scorso, quasi 200 milioni di utenti avevano installato ad-block per gli annunci sul proprio browser, costando ai publisher circa 41,4 miliardi di dollari di entrate perse solo nel 2016, secondo Business2Community.
Celebre è anche il rifiuto di Mark Zuckemberg – ai tempi in cui Facebook non aveva ancora individuato un modello di business -, quando vietò l’inserzione di banner pubblicitari all’interno di ‘’The Facebook’’ al socio e CFO Eduardo Saverin, per non rovinare l’esperienza utente.
Ma andiamo con ordine…
Il 27 ottobre 1994 comparve su Wired.com il primo banner pubblicitarioonline appartenente al gruppo di telecomunicazioni americano, AT&T.
Accanto alla domanda scritta a caratteri colorati “Have you ever clicked your mouse right HERE?” l’inserzione conteneva una freccia orientata alla profetica risposta “YOU WILL” scritta con lettere bianche.
Nessun logo, ma lo slogan “YOU WILL” rappresentava all’epoca la campagna televisiva dell’azienda.
La percentuale di clic raggiunta (CTR) dal primo banner? Non la sapremo mai, ma in rete ho trovato diverse percentuali, dal 44 al 78%. Era comunque molto alta.
Nel ‘peggiore’ dei casi, su 100 utenti che visualizzarono il banner, 44 lo cliccarono: un valore che oggi possiamo solo sognare.
Dalle statistiche rilevate dal tool di Google che studia l’impatto degli smartphone nel processo di acquisto dei consumatori, si deduce che su 1000 utenti solo una media di uno o due clicca sugli annunci online nei loro diversi formati.
Aggiungo io che nel caso fossero due, il 50% ha commesso un miss-click: uno su due si è sbagliato.
Il principale fattore a condizionare questa evoluzione è la cosiddetta banner blindness(cecità da banner).
Che cos’è la banner blindness o cecità da banner?
La banner blindness è un processo cognitivo per il quale visitatori di un sito web finiscono per ignorare in maniera conscia o meno banner pubblicitari e/o altre forme di inserzioni simili.
Se ogni volta che accediamo ad un sito internet dovessimo leggere ogni cosa, non avremmo tempo per fare nient’altro. Viene quindi in nostro aiuto l’attenzione selettiva, che permette di focalizzarsi sulle cose che ci interessano ricercandole in automatico utilizzando schemi cognitivi costruiti con l’esperienza solo sulle parti della pagina in cui presumiamo di trovare le informazioni pertinenti.
Ogni volta che l’utente arriva su un nuovo sito web per trovare le informazioni necessarie, utilizza questi framework per cercare parti della pagina web che sembrano promettenti. Sono principalmente luoghi in cui hai trovato informazioni preziose in precedenza.
La cecità al banner è il nostro meccanismo di difesa contro il sovraccarico di informazioni tipico della società contemporanea, in particolar modo del mondo del web. Possiamo definire il fenomeno come un meccanismo cognitivo di difesa del nostro cervello da un eccessivo carico di informazioni. Sul web non leggiamo realmente i testi ma scannerizziamo le informazioni più rilevanti come titoli ed elenchi. Effettuiamo una lettura trasversale e ci soffermiamo solo su cosa ci interessa. Nel web cerchiamo informazioni, lo facciamo di fretta e gli annunci pubblicitari rientrano nelle informazioni non richieste: Quindi le escludiamo, più o meno inconsciamente. Questa tematica assume un’importanza sempre maggiore anche nel mondo della pubblicità in tv, sui giornali e sui social ed ha reso la questione della percezione inconscia degli annunci pubblicitari un tema di ricerca sempre più centrale. Come si comporta un utente all’interno di una pagina lo si può capire bene dalla foto qui sotto, risultato di un test effettuato da Nielsen Group.
La correlazione fra attenzione selettiva e cecità da banner è evidente.
Soprattutto quando abbiamo un obiettivo ben preciso non vogliamo cliccare su inserzioni; l’esperienza ci ha portato a classificare automaticamente alcuni elementi come pubblicità e quindi ad ignorarli in quanto contenuti non richiesti e non interessanti ai fini della ricerca svolta, il nostro cervello escluderà -in automatico- sempre meglio, il ‘rumore’ attorno alle informazioni che stiamo ricercando escludendo appunto la pubblicità e tutto ciò che vi assomiglia.
Perché anche ‘’tutto ciò che vi assomiglia’’? Lo spiega empiricamente un esperimento del 1998.
Nel 1998 venne condotto un esperimento di web usability su un campione di persone a cui veniva richiesto di cercare precise informazioni online. Queste informazioni potevano talvolta essere trovate all’interno di un sito, semplicemente cliccando sui banner. I banner ignorati, assomigliavano in molti casi a quelli pubblicitari, oppure se ne differenziavano fortemente. L’aspetto del banner quindi non aveva alcuna importanza per i partecipanti che ignoravano i banner preferendo a questi i link inseriti nel testo.
“I banners sono tendenzialmente ignorati dagli utenti anche quando contengono le informazioni ricercate.”
Quest’esperimento portò anche alla scoperta di come i banner posizionati più in alto passano spesso tanto inosservati quanto quelli in basso. Nel periodo successivo a questo studio sulla banner blindness, il fenomeno è aumentato, fatto confermato anche da un generale forte calo del CTR in ambito di display advertisement.
A supporto di ciò un ulteriore e più un recente studio di Nielsen ottenuto attraverso mappe di calore derivanti da tracciamento visivo.
In nessun caso c’è una interazione visiva con i banner né con la barra in alto del sito.
Questo fenomeno è andato al di fuori dei confini dell’ambito pubblicitario, gli sviluppatori di siti web sono obbligati ad occuparsene. Visto che gli utenti recepiscono, o ignorano, gli elementi all’interno di una pagina web in maniera inconsapevole, è possibile che finiscano per ignorare anche contenuti che in realtà non sono pubblicitari. In particolare immagini grandi e simili a banner o le aree tipicamente dedicate alla pubblicità (ad esempio la colonna a destra o l’header del sito come visto nelle heatmaps sopra).
La conclusione è: gli utenti Web non guardano alcun elemento del sito web che assomigli a un annuncio.
Questa cosa non è marginale, mediamente oltre il 50% di budget pubblicitario destinato a banner è sprecato per questa ragione, alcuni studi arrivano a registrare fino al 93%: Gli utenti ‘non vedono’ le pubblicità.
Fatte queste premesse e visionati i risultati degli studi effettuati, se il cervello esclude automaticamente tutto quello che è o assomiglia a banner o più generalmente pubblicità, il metodo più efficace sarà quello di rendere i nostri annunci meno simili agli annunci banner o più in generale rendere la nostra pubblicità meno simile possibile alla pubblicità.
”Make your ads look less like ads.”
Vorresti qualche “trucchetto” -per non chiamarlo clliché- in maniera che le tue pubblicità assomiglino sempre meno ad annunci? Tanto lo so che lo vuoi…
Ecco alcuni consigli utili: ottimizzare gli annunci per mobile, cambiare forma/posizionamento/colore e personalizzare il più possibile l’annuncio anche e soprattutto puntando sul retargeting. Queste best practices però potranno divenire obsolete, l’unico modo per rendere questo articolo e questo consiglio immortale è la solita cantilena: testare, uscire dal coro provando cose diverse in maniera tale da rompere gli schemi cognitivi dei nostri utenti per mostrargli i nostri annunci.
(lo so, avrei potuto prendere un’immagine scontornata ma alla fine non mi dispiaceva e non ne avevo voglia)
Un’ottima soluzione, ad oggi, sono stati gli annunci nativi. Gli annunci nativi sono annunci pubblicati all’interno del contenuto. Ad esempio, banner fra paragrafi di testo all’interno di un blog, annunci video riprodotti all’interno di un video o fra un video ed il successivo, annunci nei feed social, annunci nelle app mobili. L’obiettivo è progettare gli annunci pubblicitari come parte di esperienze generali al fine di non allontanare l’utente dal suo compito. Ovviamente glii annunci nativi sono molto più efficaci nel catturare l’attenzione e il coinvolgimento rispetto agli annunci tradizionali. In un esperimento condotto da infolink, gli annunci nativi integrati sono stati visti il 47% più velocemente degli annunci banner e queste aree venivano fissate il 451% in più rispetto agli annunci banner. Inoltre, il tempo trascorso da ogni utente è stato del 4000% in più, il che porta a un migliore richiamo.
Gli annunci nella timeline di Facebook od instagram sono annunci nativi. Il selezionare automaticamente informazione utili da quelle non, essendo un sistema di difesa del nostro cervello, avviene anche sui social sopra citati, su questi, anzichè cecità da banner avremo ”cecità da contenuto” ma il concetto sarà il medesimo.
Nel primo caso a cecità da banner avviene perché generalmente alle persone non piace essere interrotte o non piace ricevere offerte di vendita quando non richieste. La cecità di contenuto invece si verifica perché la quantità di contenuti è troppa ed in costante aumento.
Ti sarà capitato di scrollare timeline o stories senza essere effettivamente ”attento” a cosa stavi guardando o senza poter ricordare cosa hai appena ”scorso”. Ecco la cecità da contenuto. Questo fenomeno rende inutili altissime percentuali di investimenti in pubblicità.
COME SI OVVIA ALLA CECITÀ DA CONTENUTO?
Per iniziare, da una esperienza personale, foto troppo perfette o artefatte ad esempio non otterranno il ritorno desiderato a discapito di video tremolanti, immagini pixellate in generale contro contenuti a presa diretta: veri o veritieri. Nel secondo caso un contenuto non professionale potrebbe nonalzare le barriere difensive che alzerebbe un tradizionale video di vendita perfetto in luci, audio ecc. Ovviamente questo funzionerà fino a quanto tutti non inizieranno a fare video tremolanti.
Un’altra strategia, più efficace e duratura è la seguente:
Stimolare i TRIGGER POINT dell’utente in maniera rendere in tuoi contenuti di nuovo visibili.
SBAAAAAM!
eccoti un fantastico link con la soluzione, all’interno di un testo pieno di valore che per reprocità, forma e bisogno creato dovrebbe aver camuffato la marchetta ”dovresti venire al corso”.
Niente male come contenuto nativo pubblicitario eh?
Se non verrai al corso potresti essere fortunato, potrebbe essere l’argomento del prossimo articolo. Ho detto potrebbe, nel caso lo troverai QUI. (se ”qui” non diventerà mai cliccabile, avevo altro da fare, mi dispiace per te, saresti dovuto venire all’evento)
A parte gli scherzi, Enrico è veramente un MEGA dell’adv italiano e non solo, è più una GAG che altro viste le 5 ore all’evento.
Vuoi che preveda cosa andrà a sciamare grazie al lavoro dell’attenzione selettiva?
La cecità da influencer marketing.
Milioni e milioni di testimonial avranno un effetto sempre più tenue sui fan, se in un primo momento, non avendo ancora costruito schemi cognitivi potevamo pensare le referenze o le recensioni a prodotti/servizi fossero vere e disinteressate. Dopo un po’….
Ti faccio un esempio, dopo la 12esima storia di fila dove ci propongono un qualsiasi prodotto fantastico con cui ”si sono trovati benissimo” potremmo fiutare che
”C’è QUALQUADRA che non COSA”
Ad oggi comunque è ancora un’ottima soluzione, in calo, ma un’ottima soluzione. (Questo però è un altro articolo e lo troverai QUI non appena lo avrò terminato.)
Ho anche una esperienza diretta nel settore, più nello specifico l’utilizzo di micro influencer come vettore di marketing, mi ha permesso di ottenere straordinari risultati con la mia startup durante il programma di accelerazione di Luiss Enlabs, ti racconterò proprio QUI l’esperienza e l’utilizzo che ne abbiamo fatto.
In caso i “QUI” non siano cliccabili -devo finire di scrivere gli articoli- puoi iscriverti alla newsletter o seguirmi su qualche canale social.
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